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Essere adulti e le relazioni tra adulti in Comunità Capi

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Sondaggio: voi, in fondo in fondo, pensate veramente di essere degli adulti?

Credo che diventare adulti oggi non sia un traguardo accattivante.
Fatichiamo a diventarlo perché essere adulti significa fatica, responsabilità, impegno, coerenza…
Allora lo diventiamo per inerzia.
Credo che oggi si diventa adulti per inerzia, non per scelta.
Ti ritrovi adulto, è un po’ ti dispiace.

Fatico a pensare alle coca come comunità di adulti. Era un sogno di qualche decennio fa, quando si inorridiva al solo pensiero della “quarta branca”. Animatore della coca, questa era la figura. Adesso c’è il capogruppo, che non è solo un “rappresentante” o un “animatore” della coca.
Fatico anche a far morire il sogno di una comunità di persone che scelgono di servire, di voler bene ai ragazzi con consapevolezza e maturità. Non accetto l’idea di fare solo animazione. Noi siamo educatori.

Quali sono i motivi di questa doppia anima della coca?
Sono alcune immaturità a volte fisiologiche o sociali e altre strutturali, proprie del nostro modo di fare scoutismo. Vediamone alcune.

“Ci sto perché mi fa stare bene”, e non “ci sto per servire”

Le coca spesso sono un di più, una medicina amara per poter far servizio con i ragazzi.
E’ più importante e gratificante fare attività che non partecipare in coca (+ zona, regione).
Ma allora qual è la qualità della scelta di servizio. E’ possibile per un ragazzo di 20 anni fare una scelta di servizio, oggi?

“I giovani capi si trovano in una fase della loro vita dominata dal desiderio di relazioni affettive stabili e , spesso, dall’ansia di trovare una proprio collocazione nel mondo del lavoro. In questo quadro di forte instabilità viene chiesta loro un’assunzione di responsabilità e di competenze che li porta a dirottare i loro interessi sugli altri, spesso distogliendolo da se stessi, con la conseguenza di perderli nel giro di pochi anni.”

Come agesci ci dimentichiamo spesso che le analisi giovanili riguardano anche i nostri giovani capi, e quando diciamo che si compiono scelte serie solo a 30 anni dimentichiamo che la partenza noi la diamo a venti, e che poi, in coca, a questi ragazzi chiediamo di aderire al patto associativo ! (l’avete presente?), di essere fedeli e di rimanere 3 anni…
E’ bene puntare alto, ma ricordiamoci delle “ali” ancora fragili, qualcuno deve pensarci…
Credo che ci voglia consapevolezza (scelta), gradualità (gradini che devono rendersi visibili) e sano protagonismo.

Staff, non pattuglie

Le caratteristiche principali sono il verticalismo, la presa di responsabilità, la progettualità. Quale verticalismo offrono le nostre staff? E progettualità? Spesso come capigruppo sottovalutiamo l’importanza di una buona esperienza di staff, per privilegiare quella di coca.
A volte non entriamo in merito a ciò che accade nelle staff, e ci meravigliamo quando i problemi e i conflitti esplodono violenti in coca. Meglio prevenire che curare, e quindi dobbiamo infilare la testa nelle staff.

La figura del capo gruppo

Cosa deve essere il capo gruppo? Coordinatore, moderatore, organizzatore, burocrate, oppure anche riferimento umano e morale ? Qual è il criterio che usiamo in coca ad inizio anno per scegliere il capogruppo?
Progetto del capo come progressione personale?
Ciò non toglie che la coca deve camminare con le proprie gambe, e non con quelle del capogruppo. Le responsabilità della coca devono rimanere tali, guai se il capogruppo per efficienza o senso del dovere se ne fa carico.
E’ difficile essere riferimento umano e morale se non c’è un’adeguata esperienza alle spalle e alcune capacità di mediazione, equilibrio, senso delle cose, ragionevolezza e amore per i capi.
Non tutti i bravi capi riescono ad essere dei bravi capigruppo, oppure si può esserlo in un certo momento della propria esperienza scout. La coca deve farsi carico della delicatezza di questo ruolo, e quando si fanno le staff deve tenerne conto (primo ruolo da trovare?).

Cammino di fede

Spesso lo si intuisce come strumento per l’attività, pensando che i destinatari siano soltanto i ragazzi. In coca viviamo un percorso di fede che ci aiuti a motivare il nostro essere educatori?La fede è il motivo per cui serviamo?
Credo inevitabile che chi entra in coca non sia solo motivato dalla fede: il percorso che la coca deve fare è arrivare a maturare questo senso del servizio. Può anche darlo per scontato, dando la colpa ai capi clan, ma ne pagherà le conseguenze.
Ma fede il più possibile legata alla vita. Uno dei problemi più grandi del mondo cattolico è il distacco tra fede e vita. Scarseggiano i testimoni “cerniera”, chi riesce a raccordare il mondo delle pratiche religiose con quello che ha a che fare con il senso della vita.

La figura dell’assistente

La fede non può continuare a fare da cornicetta alle nostre attività. In coca, come adulti, dobbiamo fare esperienza di Gesù e di salvezza, non abbiamo scelta. E allora la presenza di un assistente diventa importante, altrimenti possiamo usare anche i bignami di catechesi. Credo comunque utili e importanti le catechesi, i momenti formativi, magari assieme all’AC per ottimizzare i tempi, ma Gesù non passa attraverso una conferenza plenaria. Gesù ha creato una comunità di 12 apostoli, non di 1200, e con loro ha mangiato, ha dormito, ha risposto alle domande più ingenue, ha sostenuto nelle debolezze più umane, ha sofferto per i tradimenti. C’è stata esperienza di comunità. Poi li ha mandati.

“Una cosa che ho capito per strada guardando le comunità capi è che è perfettamente inutile richiamarsi al dover essere di una comunità se non si è sperimentato almeno in qualche misura il piacere di essere una comunità e l’aiuto che dà essere una comunità. Occorre sperimentare ciò che la comunità dà in termini di positività, di sostegno, di allegria.” Anna Perale

Se le risorse mancano, se le vocazioni diminuiscono, se il tempo è tiranno, la soluzione per me non sta nelle catechesi di massa, né sui canali satellitari, né su internet. Sta nel prendersi cura di piccole comunità di laici perché poi germoglino in comunità più ampie.
Quindi non momenti di preghiera confezionati ad arte da professionisti, ma presenza e supporto nei maldestri tentativi laici di pregare il Signore.
Sostegno ai capi nella costruzione di itinerari di catechesi per i ragazzi che mettano in evidenza la centralità del messaggio di Cristo.
Sostegno ai capi nelle loro fragilità, nei momenti in cui il capo bambino prende il sopravvento sul capo adulto, quando nemmeno il capogruppo può farci molto.
Lo so, sto facendo riferimento alla figura di un AE con del tempo da spendere e di una certa esperienza, ma, ripeto, il problema non è di tipo culturale, è relazionale.

La formazione in coca

Credo ci sia bisogno di un delicato mix. In linea di massima l’iter associativo dovrebbe garantire una buona preparazione metodologica, supportata dalla zona. Non spenderei il tempo della coca in tecniche, anche se a volte è necessario. La coca, per come è fatta, per i numeri, per la sua fisionomia, la vedrei riflettere sull’intenzionalità educativa che dobbiamo e possiamo agganciare agli strumenti, sulla realizzazione e di un progetto educativo che contraddistingue la nostra associazione dalle altre, sulla visione di un sogno più o meno condiviso che è il vero motore di un capo e di una coca, cioè l’orizzonte di qualcosa di più grande dell’attività, del lupetto, del campo, del mio essere in coca oggi e in questo gruppo.

Ma è difficile. Bisogna che la coca riesca ad uscire da se stessa, e cammini per la strada del proprio quartiere e paese, strabica perché con un occhio deve guardare la crisi in Iraq, la globalizzazione, i problemi ambientali, e con l’altro il tessuto sociale della piazza in cui vive, le tensioni in parrocchia, la discarica del paese vicino. Se per un anno di attività di coca abbiamo solo parlato di come si fa la progressione personale e il nodo piano forse avremmo perso alcune opportunità.

Lo scautismo non è “vecchio”. Alcune tecniche per accendere un fuoco o per legare i pali erano già “inutili” nell’Inghilterra di BP. Il problema è che ci ricordiamo cosa fare ma ci sfugge a volte il motivo per cui lo proponiamo. E i ragazzi avvertono l’inutilità delle esperienze perché non vengono aiutati a coglierne il senso. Non che debba essere spiegato, ma deve essere almeno chiaro in mente di chi conduce l’attività.

A cosa dobbiamo educare? Qual è l’uomo e la donna della partenza?

“Adulti paurosi di ogni diversità e di perdere qualcosa nella condivisione con altri di diritti ed opportunità, sempre in gara con tutti, tristi e abbronzati, oppure donne e uomini che hanno obiettivi alti, al limite del sogno, che sanno rischiare e anche perdere, farsi carico di persone e situazioni, avendo scoperto in questo la felicità dell’esserci, la ricchezza della strada, la bellezza della condivisione?”

Sappiamo raccordare la pionieristica o la route con venti kg sulle spalle in agosto con questo sogno?
Anna Perale parlava di “crescita permanente” più che “formazione permanente”, che dal più il senso di capi da aiutare a crescere, non dando per scontato nulla.

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