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La mia esperienza scout e i 4 punti di B.-P. disattesi

gavette fraterne
gavette fraterne

La mia esperienza scout non rende onore del tutto ai 4 punti di B.-P., o non a tutti e 4.

Non sono mai stato bravo con la pioneristica, non ho mai fatto molta attività fisica, solo saltuariamente. Cucino le bistecche e le uova, e la pasta. Già con il sugo ho qualche problema. Sandra sa che spesso perdo la gavetta in giro.

Ma non per disordine, perché sono tendenzialmente una persona ordinata.
La perdo perché durante le uscite e i campi mi perdo ad ascoltare, a parlare, ad incontrare le persone. Vivo l’incantesimo dell’incontro tra simili, o diversi che però sognano cose molto simili.

Forse questa è una dimensione più vicina a quella del capo scout, rispetto a quella del ragazzo scout, me ne rendo conto.
I capi scout sono esseri simili tra loro, hanno diverse cose in comune. Per i ragazzi la similitudine è meno evidente.

E forse su questo aspetto pesa il fatto che ho iniziato il mio percorso scout solo a 14 anni, al terzo anno di reparto. Mi mancano i lupetti e i primi anni di reparto.
Quindi la mia vita scout da ragazzo è stata caratterizzata dal noviziato, due anni, e poi il clan. Esperienza molto cerebrale ed emotiva, anche se con lo zaino sulle spalle.

Poi tanti anni da capo, ed ecco il perché dell’incantesimo di cui parlavo prima e delle gavette perse.

Essere capo scout, fare il capo scout, significa, se lo fai bene, buttare anima e corpo, darsi, riempire la propria vita di un contenuto e un senso sconosciuto ai più, ai familiari e agli amici non scout, ai compagni di università, ai colleghi. Significa vivere in uno stato di grazia, anche faticoso, che non è stato prima e, probabilmente, non sarà dopo.

Siamo dei don Chisciotte, coraggiosi e incoscienti, e molto sognatori.

Cosa c’è di così straordinario in questa esperienza di capo educatore? L’altro. I ragazzi e i capi con cui condividi.

Hai la magnifica possibilità di entrare in relazione, profonda e genuina, con ragazzi e ragazze che stanno crescendo e ti chiedono di disegnare per loro una pecora. La conoscete la storia dell’aviatore che incontra il Piccolo Principe, no? Chiede all’aviatore di disegnare una pecora, e lui fa alcuni disegni, ma non riesce ad accontentare il Piccolo Principe. Troppo vecchia, malaticcia, sembra un cane… Infine lui disegna una scatola con dei buchi per l’aria e dice che la pecora è al riparo, dentro la scatola. E il Piccolo Principe sorride, felice. Ecco la pecora che voleva, è lì dentro.

Questo per dire che il rapporto che si instaura tra un capo scout e un ragazzo, che noi vorremmo chiamare educativo, è del tutto diverso da quello di un genitore e figlio (l’ho capito in questi ultimi anni…) e diverso da quello di un insegnante e allievo. E’ dentro quella domanda: “Disegnami una pecora”. Significa che i ragazzi non ci chiedono come é fatta una pecora, lo sanno già o possono saperlo facilmente anche in internet. Ci chiedono come noi vediamo la nostra pecora, qual è la nostra esperienza, cosa sentiamo, cosa proviamo. Perché si fidano, e capiscono che tu, capo, sei lì non per un contratto professionale e nemmeno per un legame di sangue. Sei lì perché lo vuoi tu e perché tu sei interessato a loro, nel modo più gratuito. E già questo è un mistero che educa.

Dopo diversi anni di capo clan, ho fatto altre cose, capogruppo, incaricato di zona di branca, responsabile, consigliere generale. Tutte esperienze molto belle, ma il capo clan… è un’altra cosa.

Poi i figli, cambiato casa e paese. E passano altri dieci anni.

Domenica scorsa ho rivisto una ragazza del clan (di quando io ero capo clan), era ragazza a quel tempo. Ora è una donna, una mamma. Ha perso il papà il venerdì santo. L’ho solo abbracciata e chiamata per nome, e così ha fatto lei. Nulla di strano, direte voi, e dico anch’io. Non posso dire cosa possa aver pensato lei, ma posso dire cosa ho pensato io: non si smette mai del tutto di essere capi clan, nemmeno dopo tanti anni. Guardi questi ragazzi ormai adulti e ti dici che non sai quasi più nulla di loro ma senti di conoscerli, anche se non li frequenti più. E soprattutto senti che hai ancora una responsabilità residua nei loro confronti, perché quello dell’educatore non è un gioco di ruolo che dura il tempo del censimento, è una fiducia reciproca che va oltre, è una consegna che tocca ciò che abbiamo di più profondo e importante, e bello.

Il segreto, penso, è la gratuità del tutto. Mi azzarderei a chiamarla esperienza di fraternità.

A dirla tutta, fare esperienza di comunità e fraternità come quelle che si instaurano in branco, in reparto, ma soprattutto in branca rover e in comunità capi, è una fregatura.

Quando poi vivi altre realtà comunitarie, altro associazionismo, partiti, anche l’ambiente di lavoro stesso, ti aspetteresti di trovare qualcosa che ci assomigli, ma difficilmente è così. Ma come? – ti dici- sono sicuro che si può, l’ho provato di persona quel tipo di comunità… perché non può essere così anche altrove?

Sto ancora pensando alla risposta giusta.

Ne azzardo una. Credo che abbia a che fare con una congiunzione temporale, quindi che abbia a che fare con i tempi e il tempo.
E’ l’incontro tra un giovane adulto (come non sono più io) e dei bambini, ragazzi e giovani che stanno, ciascuno secondo la propria età, scoprendo il mondo, con l’entusiasmo e lo spavento necessario.
La somma delle sicurezze acquisite di ciascuno non fa quella di un adulto navigato, come siamo ormai noi tre (lascio fuori la ragazza Sandra).

Ma la somma dei loro sogni e del loro desiderio di confronto e di trovare un posto nel mondo è 10 volte il nostro.

Il segreto è la porta che i cuori e le teste dei giovani tengono aperta. Quella porta con il tempo viene sempre più accostata.
A meno di un nostro strenuo impegno a tenerla aperta o a qualche “bug” genetico, ci sono anche quelli…

Non so come classificare tutto ciò all’interno dei quattro punti di Baden Powell, forse Servizio, forse carattere.
Forse ha a che vedere con la spiritualità scout.
Di certo è scautismo, lo è nel midollo.

Non ho parlato della natura, della strada, dell’essenzialità, della gioia del canto e del gioco, della progressione personale.
Ma ho parlato di quello che ha formato maggiormente ciò che sono oggi.

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