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Tra uomini e donne

Il senso della diarchia oggi

Mentre guardo e ascolto la ministra per le pari opportunità Prestigiacomo, che sottolinea come il mondo dell’economia e della politica sia ancora oggi in mano sostanziale ai maschi, mi interrogo su quanto l’Agesci riesca ogni volta a sorprendermi per l’unicità, l’originalità della sua struttura, ma prima ancora dei suoi principi.
Trent’anni fa, nel 1974, quando il “femminismo” non era ancora un ricordo come può esserlo adesso, la maggioranza dei capi appartenenti all’Asci e Agi scelsero di fondere le due associazioni e puntare energie, risorse e speranze, credo io, sulla coeducazione. E decisero che se si voleva accogliere ragazzi e ragazze nella stessa unità allora bisognava che i capi responsabili fossero due, un uomo ed una donna.
Nel tempo credo che sia diventata invece convinzione implicita che i capi unità debbano essere sempre e comunque due. E’ utile ricordarci invece che il nostro regolamento ci da fiducia e dice che, se si tratta di unità monosessuata, possiamo tranquillamente cavarcela da soli, assieme agli aiuti capi.
Ma su questo torneremo a riflettere.

Diciamo, comunque, che dal 1974 la diarchia è diventata un dogma. Sì, perché il concetto della co-presenza dei due sessi è stata estesa a tutti i livelli, dalle direzioni di unità agli incarichi di quadro. Quasi tutti: stiamo decidendo infatti se vale la pena prevedere la diarchia anche per l’incarico all’organizzazione e per l’EPC, e dico “pena” perché questa scelta porta con sé una grande fatica, quella della doppia ricerca di disponibilità per ogni incarico, e sappiamo tutti cosa significa.

Non ci domandiamo più nemmeno perché vogliamo la diarchia, tanto questa caratteristica è diventata “abito mentale” della nostra associazione. Se non riusciamo a garantirla c’è chi addirittura trova un prestanome da inserire nei censimenti, piuttosto di ammettere la sconfitta.

Ma oggi che senso ha la diarchia?

Io credo sia ancora legata alla necessità di rispondere ai bisogni educativi di due sensibilità diverse, di due forme di umanità parallele, che si completano nella loro identificazione, ma probabilmente sempre meno rispetto a quando il Consiglio Generale diede vita all’Agesci. Credo che oltre al significato funzionale alla coeducazione di maschi e femmine, la diarchia oggi rappresenti anche una condizione irrinunciabile di complementarietà adulta nel servire e nell’operare. Unità mista o meno, io uomo ho bisogno di avere un confronto e una corresponsabilità con una donna, non soltanto perché devo educare anche delle ragazze, ma perché ho bisogno anche della sensibilità femminile per cercare di capire il mondo dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, oltre il loro sesso, e cogliere e decifrare tutti i bisogni educativi, perché io maschio ho solo una delle due chiavi di lettura che Dio ci ha regalato.
Ancora di più: ho bisogno di una donna a fianco perché la corresponsabilità e la correzione fraterna può acquistare valore e spessore. Sto pensando, per esempio, alle facili semplificazioni e assoluzioni tipiche tra maschi che privilegiano l’efficientismo e l’attivismo a scapito di una capacità di cogliere le sfumature dei rapporti e dei comportamenti più tipica, invece, dell’universo femminile.

Quindi, anche rimanendo attendi a non generalizzare e stereotipare oltre modo le caratteristiche dei due sessi, esistono evidenti motivi per ritenere la diarchia ancora una scelta coraggiosa e premiante, non ultimo quello che investe più l’aspetto politico di quello educativo.
Siamo un’associazione lentissima nelle decisioni, credo sia sotto gli occhi di tutti. E questo anche perché non esiste un livello politico della struttura associativa che sia coperto da una sola persona che delibera grazie al suo mandato. Sono sempre due, maschio e femmina, e ogni scelta, riflessione e decisione va colta, considerata e concordata assieme. Chiaro, questo ci costa qualcosa, soprattutto in tempo di reazione e disponibilità delle persone, ma in questo caso credo nell’investimento.
In questo modo vengono sicuramente stemperati i singoli protagonismi, le decisioni figlie dell’emotività e dell’orgoglio, o in genere di possibili fragilità personali.

Otterremmo lo stesso risultato se la nostra diarchia fosse monosessuale?

Non credo. Il senso del doppio ruolo di responsabilità cadrebbe, le fatiche inevitabilmente aggiunte ne determinerebbero la fine, non troveremmo più lo stesso significato rivolgendosi a due maschi o due femmine per ottenere una risposta, un confronto, un conforto.
Il valore aggiunto della nostra diarchia, anche politica, è la complementarietà, l’opportunità che ci diamo ogni volta di rappresentare l’umanità nelle sue due forme che il nostro Creatore ha immaginato.
E di conseguenza significa dare importanza e rilievo alla necessità, questa volta educativa, di aiutare i ragazzi a scoprirsi e identificarsi come maschi e femmine, di prendere coscienza e valorizzare questa diversità, che nello stile scout è sempre sinonimo di ricchezza e mai di criticità.
Quanto più questa convinzione, e aggiungo anche competenza pedagogica, sarà patrimonio associativo tanto più riusciremo a cogliere i risvolti educativi di sfide sociali molto attuali, come quella dell’omosessualità e di culture e religioni che hanno visioni dell’uomo e della donna molto diverse dalle nostre.

Ecco che torniamo allora alla questione iniziale delle staff.

Che senso diamo alla tentazione di affidare la direzione di un’unità a due maschi o due femmine? Non dite che non accade mai, lo sappiamo che a volte capita. A quale necessità stiamo rispondendo?
Credo siano situazioni che dimostrano il nostro timore di non farcela a sostenere le attività, gli impegni, le riunioni, quindi sono risposte ai bisogni dei capi. A confronto, invece, quante volte domandiamo con la stessa determinazione quali siano i bisogni dei ragazzi, primo fra questi quello di avere due riferimenti educativi di sesso diverso, pur correndo qualche rischio o fatica in più ?

Sto pensando alla fortuna che ho avuto quando ho potuto condividere la mia passione per lo scautismo in staff con donne significative, che hanno lasciato profonde tracce nel mio percorso associativo. Sono esperienze di relazione uniche e originali, diverse da quelle che, volendo cercare analogie, il mondo della scuola e del lavoro propongono. Valgono un anno di sacrifici, anche quando i risultati nei ragazzi stentano a farsi evidenti. E sono una ricchezza della nostra cultura associativa, e di quella scelta fatta trent’anni fa.

L’Agesci, però, non sempre sa difendere le sue ricchezze. L’Agesci chiede molto, soprattutto a chi è disposto a dare, e quando non si può più dare come prima spesso si esce. Capita così a chi mette su famiglia, ed ecco sparire letteralmente la fascia dei capi dai 30/35 in su, e magari ci si rivede quando i figli sono grandi.
Ma le donne sono le più penalizzate.
Il servizio in Agesci, strano a dirsi, non è molto compatibile con la maternità, e, anche se le eccezioni ci sono, la grande realtà è quella dell’uscita dal servizio.
Mi verrebbe da perorare la causa di chi è costretto ad uscire, chiedendo all’associazione di diventare un po’ diversa, più vivibile (il termine è di moda), di assumersi l’impegno di garantire ai capi anche dei servizi minimi in termini di tempo, ma preziosi perché di spessore. Ma vedo la forbice allargarsi sempre di più, e sento sempre più deboli le voci di chi si allontana suo malgrado, e mi chiedo se vale ancora la pena di citarlo come un problema.

L’alternativa, però, è un’associazione composta di soli studenti universitari, di single, o di coppie senza figli. Ma sono convinto che non era questa l’associazione che immaginavamo nel 1974. Allora, come sa dirci B.-P., guardiamo avanti e avanti ancora, dovrà pur esserci una soluzione.
Nel frattempo ringrazio la mia coca che quest’anno si è data e mi ha dato degli spunti interessanti per scrivere queste righe.

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