Lo scoutismo è propedeutico al lavoro?
Qualche anno fa girava una leggenda metropolitana secondo la quale in Lombardia alcune aziende ricercavano espressamente dei capi scout da assumere tra i quadri, proprio perché riconoscevano alcune capacità e attitudini a chi aveva condotto o conduceva attività nello scoutismo. Non so se la cosa abbia mai avuto un fondo di verità, ma è stata per me una grande consolazione pensare che qualcuno, da qualche parte del mondo, credesse che quello che facciamo abbia a che fare con delle capacità e competenze, e che il mondo del lavoro, quello dove la vita si fa vera, ne apprezzi il valore.
Tutto sommato un capo scout dovrebbe essere una persona onesta e di equilibrio, capace fin da giovane di prendersi importanti responsabilità, un ottimista, un giocatore di squadra, anzi, spesso un condottiero, introdotto fin da piccolo nelle piramidi gerarchiche dei ruoli, e in grado di tenere il suo posto. Cari “direttori del personale” e “gestori delle risorse umane”, cosa chiedere di più?
Eppure credo che lequazione non torni.
Chi entra in una azienda prima o poi sentirà parlare di gioco di squadra, di responsabilità, di saper lavorare in team, di “pensiero positivo”, ma si accorgerà anche che alla fine contano di più i risultati e la visibilità rispetto le modalità di conseguimento. Le metodologie, gli approcci, i mezzi le filosofie devono essere orientate al raggiungimento degli obiettivi, che hanno a che fare comunque con bilanci economici. Chi lavora in proprio, poi, ho limpressione che salti le filosofie per arrivare dritto al nocciolo della questione: rimanere nel mercato.
Ciò che per lo scautismo rappresenta il “fine”, per il mondo del lavoro è spesso un “mezzo”, e viceversa.
Noi proponiamo limpresa per far lavorare i ragazzi in gruppo, per far passare il concetto di progetto, di fare le cose assieme; il mondo del lavoro propone limpresa per realizzare degli utili. Il capo reparto dellofficina non è il capo reparto della Stella del Sud. Il consiglio damministrazione non è proprio un consiglio dei capi. La Progressione Personale non è la scheda valutativa annuale.
Diciamo cose diverse con un linguaggio simile. Ma sono molto diverse.
Di fondo vedo una differenza sostanziale: noi in staff, in coca, in zona, ci vogliamo bene per istituzione. Non ci riusciamo sempre, ma è nostro dovere e nostro diritto. Ce lo aspettiamo. Al lavoro, se ci aspettiamo una cosa simile finiremo per soffrire, perché stimarsi e volersi bene non è una clausola del contratto. A volte la convivenza nellambiente di lavoro è un aspetto critico, da gestire, non unopportunità, e i motivi per cui lavoriamo sono solo lontani parenti della nostra adesione al Patto Associativo
Cosa capita quando un capo scout entra nel mondo del lavoro?
Credo che la cosa più facile da fare sia dirsi che “il lavoro è lavoro”, cioè considerarlo e interpretarlo come un mondo a parte, con delle regole e degli orizzonti specifici e non avvicinabili a quelli del resto della nostra vita. Gli psicologi continuano a dirci che i ragazzi di oggi riescono a calarsi in realtà diverse senza troppi imbarazzi, anche se la scala dei valori proposta cambia sensibilmente di volta in volta. Credo che questi ragazzi indosseranno con disinvoltura labito del “professionista”, dove uno dei pochi valori universalmente riconosciuti è “fare bene quello che devi fare”, senza troppo scendere nei particolari etici di questo “fare”.
Lapproccio più difficile invece è proporre il modello scout: quello dei valori prima degli obiettivi, quello del passo e le esigenze degli ultimi, del rispetto, della condivisione delle preoccupazioni e delle responsabilità. Cè il rischio di bruciarsi la carriera, sempre che sia corretto che uno scout ambisca alla carriera professionale, questo non ce lo siamo mai detti chiaramente. Ci sono molte possibilità di rimanere inquadrati tra lingenuo e lidealista, apprezzato per la bontà danimo ma perdente.
Di solito la “via di mezzo” è quella consigliata dai saggi e i moderati. Ma, cari saggi e moderati, provateci a perseguirla… Competere nel mercato, rimanere a galla senza affondare qualcunaltro, rispettare i ritmi degli altri senza perdere di vista gli obiettivi da raggiungere, premere lacceleratore senza investire nessuno, inseguire gli utili senza farne lunico scopo, gentili e cortesi senza farsi mettere i piedi in testa da chi ci considera avversari…
Come educatori sbagliamo in qualche cosa ?
Alla fine arriviamo a noi, capi educatori. Offriamo ai nostri ragazzi una palestra di vita lunga più di un decennio, durante la quale proponiamo loro “parabole” da vivere, ma che devono trovare una chiave di decifrazione altrimenti rimangono esperienze appese, non calate nella realtà. Come fare? Non lo so.
Suppongo imparando meno a memoria schemi educativi e concentrandoci sul senso delle cose, dando la possibilità di vedere oltre gli strumenti che utilizziamo, il gergo che usiamo, le dinamiche che creiamo. Ma non è facile. Daltronde stiamo chiedendo ad una significativa maggioranza di giovani capi studenti, ancora a carico dei genitori, di educare alla vita dei bambini e degli adolescenti. E sono bravi ad esserci e a provarci, perché la sfida è importante e faticosa, e il clima culturale non aiuta certo ad impegnarsi e a giocarsi nelleducazione. La situazione di capo-studente porta con sé sicuramente un livello culturale vivace e apprezzabile, non ancora però “vissuto” tra dinamiche ed esperienze proprie di chi lavora e, magari, si fa carico di una famiglia.
Conclusioni
Se fossi un imprenditore lombardo, uno scout non lo assumerei mai.
Anzi, cari giovani avviati al mondo del lavoro, quando ai colloqui vi domandano se avete degli hobbies (li chiamano così…) pensateci bene prima di rispondere che siete capi scout.
Se chi vi ha posto la domanda, come molti, non conosce bene lo scoutismo potrebbe pensare che fare lo scout significhi aiutare le vecchiette ad attraversare la strada, ovviamente in calzoncini corti.
Se invece sa bene di cosa state parlando potrebbe decidere di crearsi meno problemi e prendere qualcuno con più pelo sullo stomaco, pronto a cogliere al volo e sottoscrivere il vecchio principio che “il fine giustifica i mezzi”.
Il lavoro è veramente solo lavoro?
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