Ho rimandato per lungo tempo questo momento.
Ho cullato il pensiero, il filo da seguire, il senso da esprimere, il modo con cui farlo. L’ho cullato perché aveva necessità di essere curato, volevo averne cura.
Alla fine, questa sera, dopo aver riascoltato il brano con cui avevo già pensato di accompagnare la lettura di questo pensiero, ho deciso che era ora di dare il nome vero a questa riluttanza, e cioè desiderio di fuggire dal senso di smarrimento che mi provoca pensare a Marina.
Mi ero ripromesso di rievocare gli episodi che nella mia memoria hanno definito la nostra amicizia, ma non ce la faccio, sono troppo personali e alcuni lontani nel tempo, e nel momento in cui provo a scriverli mi disturba la poca cosa a cui la mia scrittura li riduce. Allora li tengo per me, li tengo per un futuro in cui potremo rievocarli assieme. Ci sarà un futuro?
Uno di questi momenti però è speciale, e ha avuto una forza dentro e una gioia fuori che mi convince a parlarne, a scriverne.
Ha a che fare con il nostro servizio scout di responsabili di zona, condiviso per due anni.
La sua cornice è l’evento per capi di interbranca di una sera di fine inverno.
Ha a che fare con noi due seduti su un gradino e di fronte a noi i capi.
Ha a che vedere con le parole di conclusione di quell’evento, con un microfono che ci passiamo di mano e attraverso il quale cerchiamo parole per fare sintesi del senso dell’incontro, di ringraziare chi ha partecipato, di salutare e di augurare buon ritorno alle proprie case.
Sta nella sensazione, rara, di aver lavorato bene, di aver preparato un buon incontro, di aver condiviso l’obiettivo e il modo ma soprattutto di provare in quel momento la stessa empatia per chi avevamo di fronte, lo stesso “bene” verso di loro, verso di noi. Senza che nessuno ce lo dicesse, sapevamo che eravamo due capi, una donna e un uomo, che avevano fatto quanto serviva con gioia, stima e amicizia reciproca.
Il sorriso di Marina, il suo sorriso di quella sera, a labbra chiuse e occhi luminosi.
“Non si ricordano i giorni, si ricordano gli attimi”, scriveva Pavese, e così è stato. Quell’attimo è dentro di me, è parte di me.
Ci sarà un futuro per raccontarcelo ancora e dirci alla fine “quanto tempo è passato” ?
Chi ci lascia alla fine non ci lascia veramente.
Se ne vanno per un po’, ci sembra.
Passiamo davanti casa loro e pensiamo che prima o poi ci torneranno in quelle benedette stanze.
Ci vengono in mente, ci guardano, ci dicono le cose che sappiamo, ci sorridono.
Ma questo futuro in cui incontrarci ancora, esiste?
Ciao Marina, a questo futuro.
Lo sai che ti voglio bene.
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